Perché continuiamo a farci del male? Cosa ci spinge a ripetere gli stessi errori?

Sembra paradossale, a volte perfino assurdo, ma spesso le persone tendono a ripetere comportamenti che le hanno danneggiate e si rimettono in situazioni già sperimentate come pericolose dal punto di vista emotivo e/o fisico. Questo accade per molte ragioni e in realtà segue una logica interna perfettamente comprensibile, sebbene in apparenza anomala. Ognuno di noi infatti costruisce la propria identità nel corso del tempo stutturando un insieme di schemi che coinvolgono emozioni, pensieri, percezioni somatiche, risposte viscerali agli stimoli esterni. Si tratta di un repertorio di conoscenze e convinzioni che elaboriamo su noi stessi e sul mondo che ci circonda per disporre di significati accessibili con cui interpretare le esperienze della nostra vita. Tali esperienze non sono sempre positive, non sempre rappresentano un vissuto emotivamente gratificante e anzi, talvolta si associano al mancato soddisfacimento di un bisogno per noi importante. Ecco allora che il nostro sistema cognitivo, il nostro corpo e i suoi meccanismi di autoregolazione, le nostre emozioni nel loro sviluppo evolutivo concorrono a formare l’identità, il repertorio di apprendimenti che ci aiuta a trovare l’orientamento nelle relazioni, nello spazio esistenziale all’interno del quale ci muoviamo specie quando dobbiamo fare i conti con vissuti di sofferenza altrimenti incontrollabili.

Mantenere la continuità del sé, facendo in modo che le esperienze che viviamo non mettano drasticamente in discussione tutto quello che abbiamo conosciuto fino a quel momento, è il bisogno prioritario che si manifesta attraverso gran parte delle nostre azioni. Spesso l’obiettivo non è raggiungere il bene razionale, tutelare il proprio benessere psicologico o promuovere un cambiamento strategicamente utile, bensì conservare le certezze che si sono solidificate nella nostra storia; se sono negative si crea un conflitto, un dilemma: una persona che ha costruito un senso di sé fondato sull’idea di essere debole e bisognosa di accudimento da parte degli altri si sente destabilizzata quando può generare un cambiamento che aumenta il suo livello di autonomia, sebbene essere autonomo costituisca per un individuo adulto un innegabile progresso dal punto di vista logico e oggettivo. Allo stesso modo una persona che ha sviluppato una modalità relazionale centrata sulla sottomissione, credendo che l’abbandono sia l’evento più probabile e spaventoso qualora faccia valere le proprie ragioni e dedicandosi a soddisfare esclusivamente i bisogni del partner anche quando si esprimono attraverso comportamenti maltrattanti, tenderà a considerare il cambiamento in maniera ambivalente, desiderandolo sul piano razionale per ottenere condizioni di vita migliori ma temendolo dal punto di vista emotivo poiché la porterebbe in contatto con aspetti di sé che non conosce.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale agisce su due livelli:

– insieme al paziente porta alla luce i meccanismi più profondi di funzionamento mentale e nella fase iniziale li preserva, per non imporre un cambiamento radicale e immediato che risulterebbe ingestibile data la sofferenza psichica che si produce quando viene interrotta la continuità del senso di sé;

– ancora insieme al paziente esplora le vie del cambiamento e i modi in cui possono essere percorse integrandole all’identità attuale; ogni cambiamento per generare benessere deve portare con sé un linguaggio che possa essere assimilato a livello cognitivo, emotivo e somatico senza scompensare i significati e le conoscenze che il paziente ha utilizzato fino a quel momento per trovare il proprio posto nel mondo.

Chi volesse ricevere maggiori informazioni per intraprendere una psicoterapia può contattare il Dott. Gianluca Frazzoni Psicologo Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, chiamando il numero 340/1874411 o scrivendo all’indirizzo email info@psicoterapiaemilano.it, e fissare un primo consulto gratuito in uno degli studi di Milano.

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